Sei commensali in posa accanto a otto allineate bottiglie di vino pronte per lo scatto fotografico. I resoconti delle cene al ristorante ormai si assomigliano tutti. E più le bottiglie sono care o rinomate e più raccolgono consenso digitale. Tanto che molti locali puntano ormai sull’“abbinamento al calice”, che prevede di accompagnare il pasto con non meno di cinque bicchieri di vini diversi e fotografia di rito.
A parte la mia opinione personale che abbinare cibo e vino sia un esercizio molto sopravvalutato e che il compito di un sommelier di rango dovrebbe essere invece quello di saper intrepretare i gusti del cliente e conoscere quali bottiglie e quali annate siano nel miglior stato di forma in un determinato periodo dell’anno, credo che con queste esagerazioni non si faccia un buon servizio né alle pietanze né alle bottiglie.
Intanto la capacità percettiva media è limitata e pochissime persone sono in grado di continuare a raccogliere informazioni aromatiche dopo essere state stimolate con cinque portate, trenta ingredienti e mezza dozzina di alcolici.
Poi tutti gli assaggiatori sanno che il meglio si dà da sobri e a digiuno mentre dopo cinque o sei bicchieri, cioè una bottiglia, sia la sazietà che l’ebbrezza iniziano ad insinuarsi, così l’ultima bottiglia stappata svanisce nel sapore e nel ricordo.
Consiglio invece di perseverare con la medesima etichetta, magari provandone annate diverse o limitarsi a un paio di scelte, senza rincorrere con spasmodico dogmatismo la fusione alimento-bevanda, rischiando la confusione nel sapore.
Da La Stampa del