La vulgata questa volta non falla. E’ l’anima dell’aglio a determinarne la digeribilità e, ancor di più, il sapore.
Dopo la raccolta il tubero inizia a disidratarsi e conserva struttura e profumo fintanto resti in un ambiente fresco, ventilato e secco. Tanto il caldo quanto l’umido ne stimolano invece l’antonomastica vigoria riproduttiva. E quando l’aglio va a germoglio, l’anima muta colore e la polpa aroma.
Allora espungere il nerbo vivente dello spicchio non gioverà né allo stomaco né al palato. Il gusto diviene greve, la persistenza fastidiosa, la piccantezza maleducata. Meglio astenersi e volgere lo sguardo a altri condimenti.
Ma dell’aglio anche l’animo deve essere tenuto in massimo conto. Tuberi coltivati in terreni poveri, con poca o nulla irrigazione e di varietà adattate a questi climi e non selezionate per ipertrofie di volume, offriranno un corredo di aromi più delicato, gentile, piacevole e per nulla lesivo dei visceri e degli incontri.
Aglio di Vessalico, di Nubia, di Sulmona, di Voghiera, di Lautrec e di Nicastro, se abbandonati in campi non fertilizzati, alla mercè di sole, pioggia e vento, cresceranno piccoli ma saporiti, amabili ma di carattere.
Spicchi dall’animo affabile, conservati in maniera da mantener la polpa bianca e incorrotta, silenti nel fresco e lontani dalla maturazione, con un’anima candida, potranno gettarsi a mazzi nella bagna caoda.
Ma cespi di aglio cinese, germogliato o mal conservato, omaggeranno la tradizione ma saran buoni solo per l’isolamento sociale e la mortificazione del sapore.
Da La Stampa del