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ALBANIA, RISERVA GASTRONOMICA A RISCHIO GLOBALIZZAZIONE

Andavo in Albania quando la maggioranza degli italiani, per disinformato pregiudizio, storceva la bocca. Austere montagne, dolci colline, fiumi pescosi, boschi prodighi di frutti, borghi carichi di storia, acque cristalline.

Prima che il cemento iniziasse a ricoprire in maniera disordinata e violenta ogni tratto di costa ho scovato, in quella terra vergine di agricoltura moderna, dal recente passato di estrema povertà e di dittatoriale privazione, cibi autentici, contadini, essenziali: alcuni basati sulla raccolta e la pesca, altri debitori nei confronti dell’interpolata koinè ottomana, comune a tutta l’area balcanica, altri derivati da una misera cucina di sussistenza, capace comunque di gentilezze e di gustosi tentativi di riscatto.

Ora che sono arrivati gli uffici stampa e le promotrici di professione, attive sui mezzi di socialità virtuale, oltre al patrimonio paesaggistico e etnografico, a essere in grave pericolo è la gastronomia che, benché difesa da paladini, tra cui Altin Prenga, del cui confronto mi arricchisco da anni, rischia la trasformazione verso quel pittoresco, che è assai più subdolo del falso. Piatti tipicamente “albanesi”, riconoscibili, semplificati nelle preparazioni e resi dozzinali negli ingredienti, cancelleranno quelli autentici più di quanto potrebbe fare la proposta di una cucina totalmente aliena. Negli ultimi dieci anni è successo lo stesso, cemento incluso, in Grecia, e, negli anni Settanta, lungo le coste italiane.

La benzina di questo incendio doloso è il prezzo: il turista rincorre ciò che, temporaneamente, è conveniente, disinteressandosi del vero. Ma se viaggiate in Albania spingetevi nell’interno, verso i confini, e fermatevi nelle poche taverne, nelle fattorie e nei mercati. Farete un tuffo nel palato.

Da La Stampa del