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ALTA RISTORAZIONE IN CRISI ESISTENZIALE

La crisi del livello altissimo della ristorazione italiana ha sicuramente a che fare con l’aumento dei costi delle forniture e con la disaffezione del personale verso questo modello di lavoro, considerato, a buon diritto, scarsamente etico, ma la situazione è un po’ più complessa.

Intanto, fatte salve le figure, professionali o meno, che traggono utili da questo settore specifico, gli appassionati hanno perso interesse per un rituale che è diventato ormai noiosamente identico a sé stesso. I medesimi ingredienti (gamberi, animelle, ombrina, anguilla, guancia, foie gras, bottarga, per citarne solo alcuni) vengono serviti in tutta Italia, in preparazioni piuttosto simili.

La giaculatoria dei camerieri che spiegano dal pane all’acqua minerale è ormai insopportabile e prolissa. La scelta è quasi scomparsa, perché un menu fisso, in cui la quantità di cibo mette a dura prova anche i fisici più temprati, viene imposto a tutto il tavolo. Gli abbinamenti di vino al piatto, che arrivano fino a nove calici per pasto, generano più ottundimento che sorpresa. E i tempi infiniti di questo rituale, almeno tre ore, trascendono lo svago e si avvicinano al sequestro di persona.

La nicchia dei “gourmet” sta perciò tornando ai convivi domestici, con materie prime d’eccellenza, fresche e cucinate al momento con semplicità, e bottiglie scovate in cantina, enoteca o sulla rete, spesso d’annata e a prezzi tre volte inferiori.
La clientela degli stellati resta oggi, per la maggior parte, composta di avventori per cui quell’esperienza, spesso l’unica nell’anno, è più da fotografare che da gustare, con conseguente appiattimento dell’offerta.
E la critica gastronomica, che saprebbe stimolare la transizione verso modelli più sostenibili e contemporanei, forse, in Italia, non esiste più.

Da La Stampa del