Tra le aree più anticamente popolate della Terra, compresa tra l’Eufrate e il biblico Monte Ararat, l’Armenia è uno dei territori baricentrici del Medio Oriente, vessato da migliaia di anni di invasioni, un genocidio a opera dei turchi, mai totalmente riconosciuto, e l’ingerenza dell’Unione Sovietica, da cui non si è mai affrancata. I suoi confini, oggi incredibilmente ristretti, sono quelli in cui si sviluppò la civiltà del pane e del vino. Il pane Lavash, una sorta di piadina cotta in forni ipogei, e il vino, altro componente del banchetto sacro, nacquero tra Armenia e Georgia oltre ottomila anni fa.
Sono stato invitato dodici mesi or sono dal governo di quel Paese a ragionare sulla possibilità per quest’area di aprirsi al mondo attraverso la valorizzazione della propria gastronomia, basata più sui prodotti tipici, contadini e genuini, che sulle ricette; e ne sono rimasto rapito. Oggi ritrovo quelle regioni eccezionali, ricche di cultura, paesaggi incantati, giovani entusiasti e vocazione cosmopolita, devastate da un’ennesima guerra di conquista, passata in secondo piano di fronte al dramma globale della pandemia.
Eppure le verdure, i formaggi, i vini e il pane armeni potrebbero, da soli, sostenere un Paese che si stava aprendo alla libertà, al turismo, alla bellezza e al sapore. Mi auguro la fine prossima di questo folle conflitto e la memoria, in ognuno di Voi, di una destinazione gastronomica di eccellenza, che ora più che mai assume un valore politico, economico, sociale e di gusto.
Da La Stampa del