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BANCARELLE DI PERIFERIA SENZA SAPORI E SENZA STAGIONI

Adoro le periferie. Conservano ancora qualche scampolo di verità resistente alla globalizzazione, ci si saluta per nome, i ritmi sono più rilassati e i mercati, soprattutto, sono ancora indiscutibili. Il cibo è economico, vero, impilato in enormi cataste, i colori ipnotici, l’umanità brulicante. Ho frequentato questi luoghi magici in mezzo mondo.

La scorsa settimana mi sono fermato in un quartiere operaio sorto nel secondo dopoguerra, abitato oggi per lo più da anziani. Il tempo è lento come l’incedere dei passi, le auto sono quasi tutte piccole e datate, ma la gente ancora ti offre il passo, una parola, un sorriso.
Le bancarelle espongono all’incirca gli stessi prodotti, molti di importazione, da agricoltura intensiva e, comunque, non di prima scelta: la taglia esageratamente grossa, lo stadio vegetativo piuttosto avanzato e l’aspetto che tradisce qualche giorno di stanchezza.
Ma, con sorpresa, noto sia diversi prezzi più elevati di quelli del centro città, sia che, nei primi giorni di marzo, le due derrate più rappresentate non sono broccoli e coste ma pomodori e pesche tabacchiere. Il cibo sembra avere una sola stagione, come gli abitanti di questo quartiere senza gioventù.
Tra i banchi scorgo anche parecchia pizza, latticini industriali confezionati, carciofi vittime del caldo, insaccati dozzinali e agrumi a fine carriera.
L’unico stallo che propone qualche verdura da agricoltura sostenibile è desolatamente orfano di clientela.

Ancora una volta mi è chiaro che il cibo artigianale, contadino, più gustoso e più nutriente sarà riservato in futuro a pochi fortunati. Una vera politica di perequazione sociale dovrebbe garantire, prima di altri sussidi, cibo vero e buono alla rassegnata maggioranza di vinti che hanno costruito col loro lavoro il benessere di questo Paese.

Da La Stampa del