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BAROLO, LA DURA LEGGE DEL MERCATO

Ho bevuto una bottiglia di grande Barolo, forse l’ultima, perché non sono abbastanza ricco.
La conservavo in cantina da vent’anni anni e, visto che inizia a dare il meglio di sé dopo quindici dalla vendemmia, stappandola, ho ritrovato la magia di quei profumi e di quei colori plasmati dal tempo, che rendono questo vino piemontese uno dei migliori del mondo.

Il problema è che le bottiglie d’annata praticamente non si trovano più, né in enoteca né al ristorante, tanto meno nelle Langhe, perché sono appannaggio di clienti molto facoltosi, che le rimuovono dal mercato.

Non c’è bisogno di citare l’ingaggio di Ronaldo, basta andare una settimana in Inghilterra o negli Stati Uniti per capire come il nostro potere d’acquisto sia ormai molto modesto, mentre i prodotti italiani estremamente ricercati e quindi venduti al miglior offerente. Succede anche con i rari tartufo, tonno rosso e olio extravergine di alta gamma. Così i Baroli di maggior blasone, pur se giovanissimi, o aumentano di prezzo o scompaiono dal commercio o vengono assegnati a pochi clienti. E, anche a patto di riuscire a procurarseli, la mia mezza età inizia a sconsigliare un investimento gastronomico da gustare tra quattro lustri.

Ormai il Barolo d’annata segue, fisicamente, il denaro, concentrandosi in quei Paesi che non hanno problemi a pagarlo al prezzo, astronomico per gli italiani, verso cui la domanda l’ha spinto.
A volte mi chiedo cosa attiri i turisti stranieri in Langa, dove spesso trovano vini più giovani e meno pronti che a casa loro, e dove, tra non molto, gli abitanti, a meno di non avere grandi riserve o parenti produttori, non avranno più alcuna conoscenza diretta del loro vino.
Ma è il lusso, bellezza. E noi non possiamo farci niente.

Da La Stampa del