Camerieri e aiuti-cuoco sono diventati merce rara, anzi rarissima, dopo i giorni della segregazione.
Di certo l’aleatorietà di un mestiere, che è stato tra i più colpiti dalla pandemia e che ha visto soprattutto gli addetti più giovani, molti dei quali titolari di contratti scarsamente tutelanti, fare le spese delle chiusure, ha fatto orientare altrove i lavoratori del comparto.
Ma questo non è sufficiente per spiegare la fuga da un’occupazione che è innanzitutto mossa dalla passione.
Qualcuno ascrive la colpa ai sussidi al reddito, che farebbero preferire il poltrire sul divano alle dodici, a volte quattordici, ore di lavoro al ristorante. Ma neppure questa spiegazione è totalmente convincente.
Il motivo principale è che probabilmente in Italia il costo del lavoro è troppo oneroso e impedisce che i lavoratori della ristorazione possano essere assunti in numero tale da potersi avvicendare su più turni, come avviene in altri Paesi, conservando addirittura la scelta sul numero di giorni in cui vogliono lavorare.
Il turno unico, sei giorni su sette, mortifica l’unica risorsa che la pandemia ha fatto riscoprire: il tempo libero, il tempo per sé, il tempo per la vita che, quando viene ristretta, si rivela in tutta la sua impellente esigenza.
Con stipendi che impediscono di poter costruire davvero un futuro, i più giovani cercano di mettere al sicuro il presente, che oggi è fatto meno di conoscenze, di beni, di sicurezze materiali e molto più di esperienze, difficili da cogliere se si trascorrono quasi tutte le ore di veglia tra le mura di un ristorante.
Da La Stampa del