Tra i miei ortaggi preferiti, malgrado i loro tenacissimi tannini, li oppongano al vino, cui mi lega invece una solida simpatia, conto i carciofi.
Non mi entusiasmano tanto per le doti epatoprotettrici, che poi vanno ascritte soprattutto alla cinarina, presente più nelle foglie del gambo che nella parte edibile, ma soprattutto per la peculiare miscela di profumo, di colore, di consistenza e di longevità di sapore. In ogni varietà la naturale inclinazione suggerisce una tecnica di cucina
Ma la maniera in cui preferisco prepararli è a crudo.
E, benché adori quelli di Sant’Erasmo e quelli astigiani del Sorì, crudi i carciofi d’Albenga non hanno rivali. È quasi impossibile fuori dalla Liguria trovarli recisi di giornata e coltivati da un contadino che non utilizzi metodi intensivi. Ma procurarseli non è l’impresa più ardua. Maneggiarli senza pungersi le dita, a causa delle foglie eccezionalmente acuminate, o macchiarsi le mani, a opera dei loro polifenoli, che all’aria anneriscono, è arduo.
Ma quando siano ben mondati, ben scolati dall’acqua e non eccessivamente corrotti dallo sfregamento col la polpa del limone, che ne preserva il colore ma ne altera il gusto, i cuori, a temperatura ambiente, con sale di mare, poche gocce d’olio e la sola benedizione di un buon aceto di vino, regalano emozioni uniche.
A volte strofino l’insalatiera con uno spicchio d’aglio rosa, vi adagio i carciofi affettati e li lascio intiepidire in forno senza cuocerli. Con una fetta di pane o un cucchiaio di ricotta di pecora fresca il pranzo è completo.
Altre volte me li godo in astrazione, senza addentarli. Li lascio per giorni nel soggiorno in un vaso, ben composti in un mazzo. Infatti le foglie in realtà sono petali e quelli che chiamiamo frutti sono boccioli: i carciofi sono i miei fiori preferiti.
Da La Stampa del