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Cogliere i fichi dall’albero è un piacere biblico

L’unico albero dell’Eden citato con il proprio nome è il fico, da sempre per i popoli del Mediterraneo simbolo di prosperità, di conoscenza, di abbondanza.  Una volta piantato un fico, ci vanno almeno due anni perché dia i primi frutti e trenta o quaranta perché arrivi alla piena produttività. Ma, dopo, richiede poche cure. Non teme il vento, i parassiti e la siccità, e produce in maniera rigogliosa, tanto da essere un’icona di fertilità.

Fin dall’antichità i frutti, dolcissimi, venivano fatti seccare e costituivano per mercanti e viaggiatori,  un cibo molto energetico e facilmente trasportabile. Venivano utilizzati per nutrire cavalli e animali domestici nelle regioni più aride. Nell’Attica arcaica, poi, garantivano il sostentamento agli strati più poveri della  popolazione. I “fichi secchi” erano considerati di scarso valore, proprio perché abbondanti, ma non è affatto vero che non abbiano sapore: hanno una complessità aromatica attribuibile solo ai grandi vini passiti.

In Calabria, uniti a mandorle, anice e cannella, danno vita a un boccone povero ma raffinatissimo: i crucitti. Fichi e cioccolato si sposano da tempo nella Sicilia della “koinè” gastronomica e culturale. In Puglia e nella madrepatria Grecia non manca, da almeno duemila anni, la marmellata di fichi, da spalmare sul pane o da miscelare allo yogurt a colazione. Amo mangiare i fichi tiepidi, con due lamelle di bottarga o un pezzo d’acciuga, una fogliolina di maggiorana e un nulla di paprika dolce. Ma sono biblici staccati dall’albero, aperti in due con le dita e mangiati con la pelle, mentre le mani cercano, al tocco, un altro frutto maturo.

Da La Stampa del