Il mio amico Ahmed, tuareg, grande cavaliere, era il capo dell’azalaï, la carovana che, in tre settimane di cammino in una delle zone più calde e aride del Pianeta, nutrendosi esclusivamente di datteri, miglio e formaggio di capra, raggiungeva le miniere di sale nel cuore del Sahara.
Quel sale, che costava sangue di uomini e dromedari, era scambiato a peso d’oro, non tanto perché permettesse la conservazione del cibo, che avveniva per essiccazione, ma piuttosto perché modificava esponenzialmente il gusto di ogni pietanza. Ricordo ancora la sensazione sulla lingua di quei cristalli, tutt’altro che insapori.
A casa, annusai il pacchetto della cucina che, a causa di vari processi e addizioni, oltre che della modesta qualità iniziale, odorava di piscina e risultava amaro all’assaggio.
Andai al mare, su uno scoglio remoto, raccolsi la crosta salina disidratata dal sole e ritrovai la freschezza e la complessità dell’acqua delle onde, che i millenni avevano concentrato nel Sahara.
Smisi da quel giorno di utilizzare il sale industriale, riconoscendo che quello “vero”, non sottoposto ad alcun trattamento come il lavaggio, lo sbiancamento e l’essiccatura forzata, determina oltre il cinquanta per cento del sapore di qualsiasi ricetta.
Dopo molte prove, tra le varie saline tradizionali italiane, mi sono affezionato a quella di Cervia, di recente duramente colpita dall’alluvione.
Credo che la ricostruzione andrebbe sostenuta non solo dal governo ma dai singoli consumatori, tramite una raccolta di fondi legata all’invio di un pacchetto di sale allorquando si potrà riprenderne la raccolta. Si conserverebbe un sito naturalistico, si sosterrebbe un’azienda e si regalerebbe a tutti i sottoscrittori un nuovo punto di vista sul sapore quotidiano.
Da La Stampa del