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DEI DANNI DELLA DECADENZA DELLA COMPETENZA

Due le attività che la maggior parte degli individui compie quotidianamente, più volte al giorno.

Guidare e mangiare.

Ma chi mai penserebbe di poter guidare un’auto di Formula1 dopo avere pratica solo di un’utilitaria? Chi riterrebbe di poter competere al volante con i campioni della Mercedes? Chi si sognerebbe di scrivere un articolo su un pilota senza conoscere un motore da corsa o aver memoria di Senna o di Lauda?

Eppure gli influencer si lanciano nelle chicane più insidiose della cucina quando procedono incerti perfino sui rettilinei di quella accademica; gli amatori sgommano occasionalmente nei ristoranti di vertice, quando si allenano nei circuiti dei bar della pausa pranzo; il cuoco amatoriale millanta la propria superiorità di giudizio rispetto al giornalista professionista; lo chef appena uscito dalla scuola disdegna il commento del cliente che ha una collezione di duemila volumi sul tema; e la casalinga sfida ai fornelli lo chef di grido.

La gastronomia in Italia è sconfitta dalla mancata percezione della differenza tra il campionato dello sfamarsi e l’ebbrezza di correre a oltre 300 all’ora.

E la critica e gli chef sono vittime: non possono far altro che adattarsi al mercato.

Eppure Rossini, Talleyrand, gli imperatori della dinastia Shang, il poeta Archestrato di Gela, non facevano altro che parlare di cucina, studiandola ogni giorno con testi, prove, assaggi e confronti.

Dobbiamo al loro approfondimento il livello raggiunto a metà Ottocento e alla nostra superficiale banalizzazione la decadenza da allora intrapresa. 

Da La Stampa del