Non è bastato il cambiamento climatico a riportare in auge una delle mie preparazioni preferite dell’estate: la gelatina, fresca, elegante, dissetante. Invenzione araba dell’XI secolo, fu riportata in auge da Marie Antoine Carême, cuoco intellettuale nella Francia di Talleyrand, che la inserì tra i “caldi-freddi” nell’ordinata serie di portate in cui aveva riorganizzato il servizio a tavola.
Ci pensarono gli anni Sessanta a trasformarla in un’icona popolare, affidandole lingua e uova della tradizione prima e sottilette e prosciutto cotto della grande distribuzione poi.
Ma fu la cucina borghese, nel decennio successivo, a consegnarla alla storia nel mio aristocratico piatto del cuore: l’aspic. Nello stampo di rame stagnato, strati ordinati di piselli sbucciati, verdure tornite, crostacei appena passati al vapore e liberati del carapace, sottaceti artigianali, peperoni mondali della pelle, carni rosa di pesci di fiume e polpa bianca di predatori del mare, simmetricamente deposti e ben affastellati, venivano annegati in un minimo reticolo sodo e trasparente, che doveva fungere solamente da invisibile collante.
La gelatina di casa era preparata bollendo teste di pesce, ossi di pollo o cotenne di maiale.
Oggi, purtroppo, si ricorre, con minor sapore, ai fogli pronti dell’industria, conservando comunque l’accortezza di profumarli con un cucchiaio di buon aceto e di tenerli distanti dal vino, che ne corrompe ineluttabilmente la solidità, mentre l’alta cucina ha sostituito la gelatina con addensanti privi di gusto e dalla consistenza maleducata. O tempora, o sapores!
Da La Stampa del