Cucinare con la mascherina non è possibile.
La cucina non si basa infatti sull’abilità del cuoco nel far roteare padelle e coltelli ma sulla sua sensibilità nel percepire il sapore utilizzando al meglio naso e cervello. Per cucinare davvero bisogna quindi mettere bocca e naso in contatto col cibo o, quantomeno, alla distanza di un braccio.
Per questo tutto il personale che manipola il cibo è stato in passato oggetto di accurati controlli sanitari. E non stupisce che Carlo Cracco abbia oggi proposto di far ripartire i ristoranti certificando, con sierologia e tampone, la negatività degli addetti, invece di perdersi in astruse elucubrazioni su tavoli distanziati e pareti di plexiglass.
Ma, aggiungo io, per i clienti vale la stessa regola. Il cibo si consuma senza mascherina e in compagnia si apprezza ancora maggiormente. Anche la negatività dei clienti andrebbe quindi saggiata con test rapidi all’ingresso, per creare isole felici di degustazione, senza rischi.
I test immediati “pungidito” al momento non sono affidabili al 100% e potranno ancora essere migliorati, ma non vi è altra strada se vogliano salvare un settore che vale nel nostro Paese oltre 85 miliardi all’anno, che sostiene la filiera agroalimentare e quella dell’ospitalità e del turismo e che rappresenta uno dei cardini della nostra cultura.
Perché ritirare un baracchino di fronte a una serranda a mezz’asta e poi, nella solitudine di casa, pescare con la forchetta gli agnolotti da un contenitore d’allumino, non ha nulla di italiano ma soprattutto nulla di promettente.
Da La Stampa del