Durante il Rinascimento la via marina per le Indie non era stata ancora scoperta e i preziosi pepe e cardamomo, che viziavano gli appetiti dei cortigiani, dovevano compiere interminabili viaggi via terra.
Lo sviluppo delle colonie nel continente nero permise però la scoperta di una spezia simile, un cardamomo d’Africa, Aframomo, che fece la fortuna della costa di Guinea, dove iniziò a essere coltivato col nome di Grani del Paradiso e ammantato di varie virtù, per conferire lustro e prezzo al meno esotico succedaneo.
Questo seme fu utilizzato Oltremanica e in Inghilterra come ingrediente per vari cataplasmi e per aromatizzare vino e birra, come avviene oggi per l’onnipresente coriandolo.
Sono volato a Sao Tomè per metterne alla prova le leggendarie qualità. La pianta ha fiori rosa o giallo, simili alle orchidee, e frutti come fichi vizzi, rosso mattonato, con polpa bianca, che masticata dona al palato dolcezza prima e un retrogusto di trementina dopo. Infrangendo il seme si libera un piccante avvolgente e seducente, che persiste al palato soprattutto se il frutto viene aggiunto alle pietanze, schiacciato, a fine cottura.
Nel tradizionale “Calulu”, zuppa angolana di pesce secco, tonnetto fresco, frutti di gombo, spinaci selvatici e farina di manioca, l’addizione di questi frutti restituisce un piccante balsamico che scalda la bocca e, si dice, il corpo.
Ma anche in Italia, dove è possibile trovare i semi essiccati di questo pepe di Guinea, i grani del paradiso possono venire all’uopo per sortilegi gastronomici o amorosi. Ammaccati e protetti in una garza, in un brodo di gallina, o macinati al momento, su un crostaceo o un gelato al cioccolato, garantiscono ai cuochi più intraprendenti quantomeno un accattivante racconto.
Da La Stampa del