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HA CHIUSO IL PECHINO

Se n’è andato via così. Senza una parola. Senza fare rumore. Alle ventidue di un giorno qualsiasi si è spenta per sempre l’insegna fucsia del Pechino, la mia seconda dispensa a Torino.

Da oltre dieci anni frequentavo questa semplice trattoria cinese dove gli italiani erano prima inesistenti e poi rarissimi.
All’ingresso le verdure orientali crude, dal mercato, accanto a interiora bollite, anatre, zenzero e coriandolo freschissimi.
Poi l’improbabile bancone del bar di una vecchia trattoria di barriera su cui, il giovedì e la domenica, si impastavano i ravioli di maiale, zenzero e cipollotto, da cuocere al vapore.
Quindi la cucina, un antro infernale con sei fuochi da wok con fiamme altissime, decine di mannaie, derrate alimentari di ogni tipo, il pavimento coperto di pentole e un paio di cuochi sorridenti, dalle mani sveltissime e la sigaretta sempre all’angolo della bocca.
Infine la sala, raccogliticcia, con tavoli scompagnati e le stoviglie col nome di una precedente trattoria sarda.

Nell’unico locale in Piemonte e, probabilmente in Italia, dove fosse possibile mangiare un menu vegetale espresso e fresco pure nel cuore della notte, in dieci minuti dall’ordine mi sono sempre arrivate in tavola verdure pulite e saltate al momento, trippa soave, zuppe commoventi, il tofu preparato in casa e condito con carne, pesce, funghi e spezie, piatti sia tradizionali che fantasiosi di interiora e vegetali insieme, cucinati con grazia, freschezza e intelligenza, che finivano spesso nel pacchetto per la mia colazione.

Ho visto invecchiare lo chef di fronte a quei fornelli. Ci siamo sempre sorrisi e mai parlati. L’altra sera mi ha abbracciato, mi ha regalato il suo zenzero fermentato e ci siamo scambiati l’unica parola che conoscessimo nei rispettivi idiomi: grazie.

Da La Stampa del