Ho visto una spiaggia meravigliosa, libera da cemento, da musica, da campi da gioco.
Ho visto un litorale aperto a tutti, senza ombrelloni, dove ognuno stendeva un asciugamano, godeva del sole un paio d’ore e poi lasciava il posto a qualcun altro.
Ho visto giovani architetti costruire sulla sabbia, con sole canne di bambù, manufatti totalmente riciclabili e smontabili in pochissimo tempo, spazi temporanei disponibili a accogliere altri progetti nei lustri successivi o a tornare, vergini, alla costa.
Ho visto il ristorante servire solo materia locale, dai settori primari, pesca e agricoltura, accompagnata da vini artigianali del territorio.
Non ero in un atollo di lusso in Polinesia, non ero in un sogno, ero in Albania. E altrove c’erano mostri ecologici, cemento diroccato e spazzatura. Forse laggiù questa lezione avrà pochi proseliti ma perché non cogliamo l’occasione, da questa parte dell’Adriatico, di sfruttare lo stimolo europeo per essere moderni per davvero?
Perché non colleghiamo i prossimi bandi di gara alla capacità di essere aperti invece che escludenti, invisibili invece che impattanti, silenziosi invece che rumorosi?
Favoriamo chi sa essere custode di un luogo più che sfruttatore di una concessione.
E soprattutto favoriamo chi si impegni a servire prodotti locali, freschi, contadini, rispettosi dell’ambiente, della salute, del sapore e di quel patrimonio inestimabile che lega il mare alla terra e che fa dell’Italia una delle destinazioni di mare più belle e golose del mondo, e che noi, per primi, non vogliamo né vedere né assaggiare. È un sogno?
Da La Stampa del