Abbiamo confuso la reputazione con la notorietà, barattato la competenza col consenso, scambiato la celebrità con la conoscenza.
Quando uno dei migliori ristoranti d’Italia, su Instagram, ha ringraziato per la recensione una nota gastronoma i cui contenuti pubblici privilegiano autoritratti in perizoma, ho analizzato i profili col più elevato numero di seguaci che nell’ultimo anno si sono ritratti nei primi cinquanta ristoranti italiani. Ho trovato ragazze giovani con vestiti appariscenti e borse estremamente costose, ragazzi altrettanto giovani con orologi di lusso al polso, uomini e donne con auto di grossa cilindrata.
L’abito non fa il monaco, ma molti di questi sedicenti esperti dispensano consigli, e oggettivamente orientano il mercato gastronomico, sulla base di un’esperienza specifica meno che aneddotica e una conoscenza del settore decisamente acerba e focalizzata su una piuttosto maleducata apparenza. D’altra parte, i primi dieci ristoranti del pianeta progettano i piatti del menu in base alla spendibilità fotografica sugli strumenti di socialità virtuale, che appunto di apparenza si occupano.
Non vi sarebbe alcunché di biasimabile se i vertici della ristorazione non inseguissero, ospitassero e spesso blandissero questi personaggi in grado di “influenzare” non solo l’uditorio ma la loro stessa maniera di cucinare.
Non ho nulla contro costumi da bagno e tubi di scappamento ma, visto che la qualità di una prestazione artigianale, come la cucina, è determinata dalla clientela, soprattutto da quella riconosciuta come competente, mi chiedo se saremmo disposti ad accettare che la formazione del chirurgo di nostro figlio o del pilota del nostro aereo si basasse sui medesimi criteri di voyeuristica mediocrità.
Da La Stampa del