Nelle case è tornato il profumo.
Non quello dolciastro dei diffusori con i bastoncini di legno, non quello dozzinale dell’incenso di scarsa qualità acquistato sulle bancarelle, non quello ospedaliero dei detersivi che affollano il ripostiglio ai piedi del lavello, ma il profumo estinto del cibo.
Le famiglie in quarantena, superato lo spaesamento dei primi giorni, archiviata senza rimpianti la routine dei panini consumati in piedi negli autogrill, dei tranci di pizza unta acchiappati all’uscita della scuola, delle insalatone di plastica ingurgitate sui tavoli del bar e delle schiscette salutistiche ingollate di fronte allo schermo del computer, si sono riscoperte attorno alla tovaglia, e hanno ripreso a cucinare.
Il tempo per fare e per “stare”, vero regalo di questa tragedia, sta riportando in auge le lunghe preparazioni, le cotture lente, le sobbolliture senza fretta. E per questo, fin dalla prima colazione, si spande per le stanze l’aroma delle pentole che borbottano sul fuoco: bolliti, legumi, interiora.
Alla sera i brodi di risulta, nella parsimonia indotta dall’incertezza del domani, si arricchiscono di scarti delle verdure mondate per il pasto precedente, di fondi di prosciutto, di teste e di lische donate dal pescivendolo e, ingentiliti da odori in barattolo, foglioline aromatiche sopravvissute sul balcone al più mite degli inverni, spicchi d’aglio e brattee di cipolla, cedono i loro umori alla minestra che attende pasta, riso, patate, pane raffermo o un uovo per chiudere con cucchiaio di ottimismo la giornata di reclusione, perché oggi è il brodo il profumo della vita.
Da La Stampa del