Quando Enea toccò le coste del Lazio si avverò la profezia che prevedeva che gli esuli, affamati, si sarebbero addirittura “mangiati le mense”. Con questo termine Virgilio intendeva delle focacce di farro, di cui i Romani erano ghiotti, e che utilizzavano come supporto al cibo, detto appunto il “companatico”. In realtà, all’epoca della guerra di Troia, i Greci di oltre mille anni prima mangiavano probabilmente dischi di orzo, chiamati “a pitta”, cioè pita, pide, piada, pizza che avevano imparato a far lievitare in Egitto, aggiungendovi mezzo bicchiere di birra.
E proprio il pane lievitato, quando venne importato a Roma, molti secoli dopo Enea, divenne omaggio agli dei, cibo benaugurale nei matrimoni, munizione per gli eserciti e, più tardi, simbolo di cristianità nel rito bizantino: la “prosfora”, offerta.
Oggi la proposta di un piccolo pezzo di pane e di un bicchiere d’acqua all’arrivo in un grande ristorante, rinnova il medesimo omaggio, pulisce la bocca dalle ore di digiuno e, stimolando la salivazione, prepara lo stomaco a digerire il cibo e le secrezioni pancreatiche a processarlo. Quando però il pane sia troppo, in pletoriche varietà e aromatizzazioni, riproposte a caso durante tutto il pasto, l’effetto sarà il contrario: inappetenza, difficoltà di digestione, inutile assunzione di calorie. Quando poi, perfino presso gli chef più blasonati, il pane non sia perfettamente lievitato e cotto -perché la panetteria è arte difficile, diversa dalla cucina, e necessita di minor tecnica ma di maggiore esperienza perfino della pasticceria- il risultato sarà quello di un’offerta sacrilega e indigesta, per il corpo e per lo spirito.
Da La Stampa del