L’altra settimana ho avuto l’onore di presentare la prima serata di “Piolissima”, manifestazione gastronomica sulle “piole”, le osterie di un tempo.
E sono stato fortunato perché ho potuto scegliere praticamente l’ultima vera osteria di Torino.
Con osteria intendo un luogo scaldato da una stufa, un tempo era il “potagé”, cioè il posto dove, a legna, si cucinava la minestra, “potage” in francesce; dove i piatti sono genuini e sinceri, figli della tradizione, lontani dalle rivisitazioni, cucinati con materie prime fresche ed oneste e serviti in porzioni capaci di placare lo stomaco e non solo di solleticare lo sguardo; dove i bicchieri sono solidi e spessi, contengono vino buono scelto dall’oste, il cui compito principale, anche ancestralmente, era far scorrere in gola il prezioso liquido cataplasmatico per il corpo e corroborante per lo spirito, che gli avventori per lo più non possedevano in cantina ma gustavano con abbondanza fuori casa; e dove non manca mai una chitarra, una fisarmonica e qualcuno che intoni uno stornello mentre un altro inzia battere il tempo con il tacco o salterellando con un cucchiaio sul bordo di un piatto.
Ma queste emozioni in via d’estinzione, che pure ho ritrovato intatte, sospese ma non soppresse dopo i mesi di segregazione, non sono nulla di fronte alla portato principale dell’osteria: la convivialità, che risiede nello spirito degli avventori e degli osti, che di questa reazione sono iniettori e catalizzatori.
Il sapore di un ristorante è nelle persone. Basta farsi portare il cibo a domicilio per gustarne la triste assenza.
Da La Stampa del