Ci sono profumi che abbiamo dimenticato, altri che sono scomparsi, e che non potranno mai più eccitare le nostre narici, altri ancora, che ogni giorno percepiamo e danno sicurezza alla nostra giornata. Ma tutti evocano in noi un ricordo, un’immagine, un lampo di coscienza. Come il profumo della pelle di mia nonna, che non riesco più a recuperare nella memoria; come quello del latte appena munto bevuto nella stalla, che oggi è alternativamente definito vietato, pericoloso, estinto; come l’aroma unico del bar sotto casa, miscela distintiva di caffè tostato, burro cotto in forno e soave soffritto di cipolle, che mi avvisa di essere tornato nella mia città. Poi ci sono gli aromi artificiali, che riproducono goffamente profumi senz’anima né complessità, ma non per questo senza memoria: il sapone alla mandorla, l’antibiotico alla fragola, lo zucchero alla vaniglia, la bibita all’arancia. Spesso queste rappresentano le uniche esperienze del bambino moderno con l’universo dei sapori: globalizzato, semplificato, senza inconscio, e appagante fintantoché non intervenga un incontro reale con il gusto. E c’è un profumo che sorprendentemente, ieri sera, ho provato anch’io per la prima volta: la mela dell’orto di mio papà, salita dalla cantina, matura, profumata, croccante, con un bouquet inarrivabile e intenso, evocativo, persistente. Ancora una volta la lentezza della natura batte lo shampoo alla mela verde uno a zero.
Da La Stampa del