E’ la solita storia. Importata nel Mediterraneo dagli Arabi nel quarto secolo. Originaria dell’India. All’inizio ritenuta, non completamente a torto, velenosa. Poi riabilitata previa cottura, prima nel Mediterraneo del Sud e poi, con gli Ottomani, in tutti i Balcani. E’ la melanzana. Icona dell’Italia della lussuria gastronomica domenicale. Imbibita d’olio nella caponata e nella pasta alla Norma, intrisa anche di formaggio nella parmigiana, violentata e raramente ben cotta sulla griglia, molto spesso cruda se impanata e fritta. L’Islam l’ha resa invece soave, al forno con la menta, passata al setaccio con la crema di sesamo, ingentilita dal pomodoro in salse fredde e stufati misti, antenati della ratatouille. Nell’Europa dell’Est invece l’affumicatura fuori misura e l’aglio in eccesso spesso la mortificano e la rendono antipaticamente indigesta.
Personalmente mi piace a volte lasciarne cadere il gusto nell’oblio e utilizzarne invece la struttura trabecolare come trappola per i sapori e base su cui costruire consistenze. Lo si faceva già in Campania associandovi, religiosamente, il cioccolato. Ma il suggerimento più goloso me l’ha dato di recente un’infermiera calabrese: “Dottore, fate andare delle piccole melanzane violette a cubetti, in un soffritto di cipolla, con poco pomodoro e basilico. Poi saltateci i maccaruni scolati al dente e condite con una generosa grattugiata di ricotta”. Se sapesse che ho aggiunto dei peperoni verdi à la julienne caramellati con miele e aceto, non so se sarebbe felice, ma certo dovrebbe convenire che abbiamo riportato la melanzana un po’ più a Oriente e il palato un po’ meno verso l’unto ed il salato.
Da La Stampa del