Il cioccolato, come bevanda, fu servito in Italia per la prima volta già nel 1563, quando Turìn divenne capitale del Ducato strappato ai franchi, ma fu nel 1678 che Maria Giovanna Battista di Savoia-Nemours, la seconda Madama Reale, concesse la prima licenza di “cioccolataio” a un monsù Gio Antonio Ari, che portò quella polvere scura e profumata fuori dalle farmacie, consegnandola al piacere.
A Torino nacque anche il primo cioccolatino vero e proprio, incartato con carta dorata, che incontrò le nocciole, per risparmiare sulla nobile materia prima, dando vita al giandujotto, finché l’industria iniziò a produrre in serie un succedaneo, permettendo a un pubblico molto più ampio di godere di quell’oggetto del desiderio, in cui il sapore del cacao fu progressivamente meno centrale.
Solamente negli ultimi trent’anni si è tornati a dare importanza al cacao importanza e a valorizzare tutta la filiera, facendo emergere enormi differenze aromatiche e nutrizionali tra le fave nel processo di coltivazione, raccolta, fermentazione, essiccazione, tostatura, decorticazione, macinatura, raffinazione, concaggio, temperaggio, maturazione.
Analogamente a quanto avviene per il succo dell’uva, per la canna da zucchero, per la frutta destinata alla distillazione e per i latticini, è durante la fermentazione che si crea tutto il coacervo di sapori che costituiscono il potenziale aromatico di qualsiasi prodotto artigianale. L’assenza di fertilizzanti e pesticidi, di forzatura nella fermentazione, di processi di addizione e sottrazione di alcun genere, determina le caratteristiche di un prodotto che viene accudito “bean to bar”, dal seme alla tavoletta, solo dai migliori cioccolatieri, devoti alla “lentezza”. Individuateli e assaggerete la differenza.
Da La Stampa del