La carne cruda i contadini non la mangiavano di certo.
Il bovino se lo concedevano, annualmente, per la festa comandata, mentre si cibavano occasionalmente di animali da cortile, piuttosto ben cotti.
Erano stati i cuochi di corte a proporre allo Zar la carne trita non cotta. Cacciati dalla rivoluzione, traferirono ad Amburgo, e da lì negli Stati Uniti, dove incontrò la griglia, l’hamburger, che tornò in Francia col nome appunto di “bistecca americana” o “steak tartare”.
Che poi i tartari con questa bistecca cruda c’entrano solo nella leggenda che vorrebbe, colpevole il cronista di guerra del quarto secolo, Ammiano Marcellino, che i mongoli preparassero la carne sotto la sella del cavallo. In realtà, digiuno sia di equitazione che di gastronomia, non sapeva che le sottili bistecche servivano a proteggere quelle groppe dei quadrupedi fiaccate dallo sfregamento con la bardatura.
Ma fu il geniale patron dell’Harry’s Bar di Venezia, Giuseppe Cipriani, per accontentare una nobildonna sua cliente, a cui venne prescritta una dieta che impediva la carne cotta, a inventare il filetto affettato a macchina con la “salsa universale”, di maionese condita, intitolandolo al pittore lagunare Vittore Carpaccio.
Solo negli anni Sessanta giunse ad Alba la carne alla “zingara”, poi detta albese, mortificata dall’abbondante limone prima, nobilitata dal prezioso tartufo dopo. L’invenzione della tradizione si deve a un ristoratore locale che, trent’anni fa, ne dichiarò la certa ascendenza contadina se “battuta al coltello”. Giustizia è fatta.
Da La Stampa del