Esiste un solo cibo che al taglio e al palato può dare la stessa sensazione della carne: un pomodoro cuore di bue di settembre.
Disidratato dal sole estivo, se la stagione è stata clemente, il colore rosso è virato quasi al viola e la polpa è turgida, ricca, tenace, meravigliosamente rinfrescante, dolce e vagamente acida nel finale. Privato della pelle, affettato un po’ alto e condito semplicemente con qualche fiocco di sale e una grattugiata di scorza di limone, questo pomodoro, che contiene la passione già nel nome, diventa una bistecca meravigliosa per un “tête-à-tête” al tramonto.
Il potere afrodisiaco del pomodoro era già riconosciuto alla fine del Cinquecento quando i romantici francesi chiamarono la varietà di “tomatillo” proveniente dal Messico: “pomme d’amour”. Come nella mela di Cenerentola, l’amore giocava con la morte, infatti questa solanacea, all’epoca ancora di colore giallo brillante, fu relegata nelle aiole decorative perché considerata velenosa. Fu solo nel secolo dei Lumi, che il pensiero razionale privò il pomodoro di poteri magici o venefici e lo degradò a semplice ingrediente di cucina. Alla fine del Settecento, nel Sud Italia affamato e baciato dal sole, l’oro rosso incontrò la cultura gastronomica della Magna Grecia: la focaccia, il formaggio, l’olio e la pasta di semola. Da questo genuino matrimonio d’amore nacque lo stereotipo che nel mondo è conosciuto come “cucina italiana”.
Ma la consistenza del pomodoro di settembre travalica i luoghi comuni e, anche nella pianura ai piedi delle Alpi, riscalda il cuore agli amanti e consola i bambini sorpresi dal buio a giocare nelle corti dove l’autunno inizia a fare capolino.
Da La Stampa del