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L’amaranto è capace di delicate sensazioni

C’è una pianta infestante che resiste a ogni pesticida e per questo pare sia stata l’incubo dei viticoltori un tempo e dei produttori di OGM oggi. E’ così avida d’azoto che succhia golosamente la vita a tutte le altre specie e non la lascia più, tanto che una volta secche e avvizzite, le piante si rianimano se vengono immerse in acqua. Da qui il nome “amaranto”, in greco “che non appassisce”. E’ stata coltivata in Sud America, dai Maya e dagli Incas, per i quali i semi erano cibo prezioso e altamente energetico. Oggi i granuli delle infiorescenze di questo pseudo‑cereale sono ricercati dai celiaci, perché privi di glutine. La varietà selvatica è presente in tutt’Italia, soprattutto al Centro-Sud, dove probabilmente cresceva già prima della scoperta dell’America.

Preferisco lasciare i chicchi agli uccelli dei campi e raccogliere le foglie apicali più tenere. Sono di colore verde scuro con sfumature più chiare verso l’interno, delicatamente vellutate e rugose, molto tenaci. Dopo averne raccolta una bella manciata, le getto per trenta secondi in acqua bollente salata, acidulata con qualche goccia di limone. Le condisco con poco sale, aceto di vino invecchiato in botti di rovere e un filo appena di olio extravergine d’oliva. Gustate ancora tiepide, le foglie sprigionano tutta la loro forza aromatica, che termina con una delicata sensazione amarognola che subito svanisce per lasciare il posto a un sapore balsamico persistente. L’acqua di cottura, che si colora di viride pigmento, è anche un ottimo digestivo per riportare in vita una serata che gli eccessi della tavola rischiavano di fare appassire.

Da La Stampa del