Il frutto che stringo tra le dita è piccolo, poco più grande di una noce, ruvido e peloso, quasi spiacevole al tatto, perfino un poco urticante, coperto da un’impercettibile lanugine biancastra.
La pelle non è lucida ma racconta una scala di colori di terra e di fiori, di acquitrini, di cielo al tramonto, di ali di farfalla, dal verde al rosso, dall’amaranto al marrone, dal giallo al viola, come non esistono in alcun filtro fotografico.
Il profumo è intenso, come quello di un fiore d’alta montagna sbocciato all’ombra, anzi come quello di un mazzolino di fiori di giugno, che tentano la gola delle api.
Le narici percepiscono anche un calore di pelle umana, un afrore dolce come di melassa fermentata in un’isola dell’Atlantico.
Se separo con una certa forza le due metà che lo compongono, si sprigiona una festa di odori, che non riesce a nascondere la sproporzione tra il nocciolo enorme e la polpa che appena lo circonda, bianca, verde e tratti già ingiallita da una maturazione disomogenea e galoppante.
Il frutto che stringo tra le dita non è vendibile, probabilmente neppure trasportabile, non ha mercato e non ha clientela. Ma ha il sapore più ricco e intenso che abbia mai assaggiato, che mi riporta a un mondo di estati felici
staccate direttamente dal ramo.
Il frutto che stringo tra le dita è una minuscola pesca cresciuta senza irrigazione e senza alcun veleno, raccolta da un albero carico di queste palline snobbate dal commercio, che ancora esistono e resistono all’omologazione dei frutti creati per l’occhio e non per il palato.
Da La Stampa del