La regina dall’immagine pop amava le soap opera britanniche, beveva il the commerciale e non disdegnava il fish and chips, cibo degli operai che, durante la rivoluzione industriale, lasciarono le campagne, adottando in città la cucina rapida e povera che tutti attribuiamo agli inglesi.
Ma c’è anche la sostanza. La corona combatté il nazismo in prima fila, senza mai abbandonare la nazione e, per questo, la tradizione popolare accettò i privilegi aristocratici e accolse, anche a tavola, alcune abitudini per nulla democratiche – l’arrosto della domenica, la selvaggina, le interiora, il the delle cinque, le grandi selezioni di formaggi e i raffinati vini francesi -celebrate oggi nella cucina di lusso d’Oltremanica che, integrati i prodotti dell’agricoltura sostenibile, grazie anche alla decennale promozione portata avanti dall’attuale re, risulta attualmente ricca di spunti e di contenuti.
Le ultime generazioni di reali italiani invece non si opposero al fascismo né alle leggi razziali e se la diedero a gambe in uno dei momenti più tragici della storia patria.
É facile comprendere come la tradizione ne abbia rifiutato i simboli, l’agiografia e perfino la gastronomia.
Nella cucina italiana infatti non vi è quasi traccia delle raffinatezze di corte, nate dal matrimonio tra la tecnica di Versailles e l’eccezionale biodiversità italiana. I nostri cuochi di lignaggio hanno preferito dedicarsi a destrutturare e a riproporre i piatti della cucina tradizionale, peraltro per la maggior parte codificata o inventata di sana piana nel Dopoguerra: imitazione dell’imitazione.
È per questo motivo che all’alta gastronomia italiana non viene oggi riconosciuta un’identità particolarmente stimolante mentre continua a essere acclamato lo stereotipo delle trattorie che servono cibo popolare.
Da La Stampa del