Al bar dell’Università faceva figo tenere sul bancone, accanto alle bustine dello zucchero, un dosatore con una sostanza bionda, estremamente fluida, dal sapore nauseante, che chiamavano miele. Ancora oggi in molti locali non è raro trovarlo. Se avrete la pazienza di leggerne l’etichetta, scoprirete che si tratta di “miscela di mieli provenienti da vari paesi” europei o extraeuropei.
Tra questi, la Cina è il più esportatore di miele e rappresenta il 50% delle importazioni totali nell’Unione Europea. Nel 2019, i prezzi del miele cinese all’ingrosso erano pari a 1,24€/kg, quasi dieci volte in meno dei prezzi di un buon miele italiano. Ma in Cina i processi di maturazione e deumidificazione del miele, che avvengono naturalmente nell’alveare, dove un essudato o una secrezione vegetale vengono trasformati dal lavoro di centinaia di animali per dar luogo a un prodotto complesso e ricco di presenze vitali, possono essere messi in atto in maniera artificiale e industriale. Questo metodo rende il processo di produzione più rapido e meno costoso e il prodotto risultante è un nettare deumidificato artificialmente e immaturo.
Nulla di diverso da quanto accade in alcune cantine che producono milioni di bottiglie attraverso l’abuso di processi enologici industriali. Forse non a caso certi bar, ora come allora, espongono con orgoglio bottiglie di vino artificiale accanto a questi mieli di cattiva qualità e a caffè di scarso interesse organolettico.
Per il vino l’etichetta dice poco ma per il miele la dicitura “italiano” significa ancora qualcosa.
Da La Stampa del