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L’uva fragola, buona

Quando i pomodori cedono il rosso alle foglie della vite, l’autunno è arrivato davvero. Allora è bello camminare, nelle ore centrali della giornata, tra i filari dove l’uva è già stata raccolta. Molte cantine sono diventate arditi esercizi d’architettura contemporanea, ma la campagna è ancora quella dell’infanzia.

E’ bello fermarsi a osservare i colori del cielo, inspirare i profumi della terra e dei tini, sbriciolare tra le dita una zolla di terra. Ed è bello scoprire che qualche minuscolo grappolo è stato tralasciato dai vendemmiatori. A differenza dell’uva da tavola, che trovo insipida e acquosa anche quando la raccolgo nella vigna, l’uva da vino ha un bouquet di sapori meraviglioso, ricco, profumato. Da bambino però la mia gola non si accontentava dei rimasugli e andavo a cercare un filare con grappoli abbondanti e acini sodi e pieni: era quello dell’uva fragola, di cui sono ghiotto ancora oggi. Tecnicamente non si può chiamarla però “uva da vino” perché appartiene alla specie vitis lambrusca e non vitis vinifera, l’unica da cui è concessa la vinificazione.

A casa mia, veramente, l’uva fragola non veniva pigiata ma si faceva cuocere, per preparare una mostarda che durante l’inverno serviva da accompagnamento alla polenta e che oggi ci piace raccontare fosse stata ideata per accompagnare i formaggi.

Abbiamo dimenticato le nostre radici più povere e vere, quelle che non ho vissuto ma, almeno, ho ancora sentito raccontare e che i turisti cercano avidamente in un’Italia del cibo e del vino sempre più raffinata e globale.

L’uva fragola oggi non la mastichiamo più ma ne sputiamo le bucce o ne spremiamo gli acini tra le dita. L’unica raffinatezza sarebbe invece preservare l’antico rito di conservarne qualche grappolo appeso al buio in cantina, per mangiarlo il giorno di Natale, come una vera prelibata benedizione per il palato.

Da La Stampa del