Mi mangio il fegato. Nulla a che vedere con la punizione divina che Zeus inflisse a Prometeo, reo di aver consegnato agli uomini il fuoco, primitivo mezzo di cottura. Zeus non scherzava quando si trattava di cucina.
Adoro il fegato del vitello, leggermente infarinato e fatto andare nel burro spumeggiante appena profumato di salvia. La ghiandola di una giovane vitella è meravigliosa cruda, condita con aceto, cipollotto e menta tritata, a patto che sia freschissima. Il fegato del maiale è imbattibile alla moda del Centro-Italia, avvolto nell’omento, ingentilito da una foglia d’alloro e cotto lentamente sulla brace. Se i fegatini di pollo incontrano l’aglio e il pomodoro fresco, diventano un grandioso sugo per i tagliolini, dove una lamella di tartufo non stona. Il fegato d’agnello rosolato in padella e accompagnato da una composta di prugne è celestiale, come il fegato di capra, unito al cognac e passato al setaccio, si trasforma un prelibato paté.
Trovo delicatissimo il fegato del nasello, crudo o appena bollito, a patto che il pesce sia sanissimo. E’ invece un animale malato, col fegato ingrossato, l’oca da cui si ottiene il “fois gras” che, senza falsi moralismi, mi concedo un paio di volte all’anno, senza dimenticare che la sua produzione si intreccia con oltre mille anni di ebraismo europeo.
Il fegato va sempre accompagnato con verdure fibrose leggermente acidulate: rape, cicoria cimata, asparagi, carciofi. Ma è divino l’accostamento con i fichi, freschi o secchi, con cui i Romani ingrassavano oche e maiali. Da allora il fegato mutò il nome da “iecur” a “ficatum”: anche Giove in cucina voleva dire la sua.
Da La Stampa del