Ci vanno quasi tre ore di barca per coprire le venti miglia che separano l’isola di Atauro dalla baia di Dili, capitale di Timor Leste, nel Sud-est asiatico. Il viaggio, appollaiati a poppa di un piccolo scafo di pescatori, traboccante di merci, assemblaggio di assi scricchiolanti spinte da un minuscolo fuoribordo, è scomodo e pericoloso, e si tira un sospiro di sollievo quando, sotto costa, calano le onde e appaiono in trasparenza i coralli della barriera con la maggior biodiversità al mondo, che le forti correnti hanno protetto dalla voracità del turismo.
Il sabato cambia la musica, quella che accompagna il trasbordo di una brulicante umanità che il traghetto, residuato arruginito di una linea passeggeri indonesiana, in poco più di un’ora, sbarca sul precario pontile del porto di Beloi. Si tratta della nuova modesta borghesia, che lascia la capitale per un giorno a settimana, per regalarsi una gita al mercato contadino dell’isola dirimpettaia.
Accanto alla zona di vendita, dove in meraviglioso ordine tassonomico sono disposti frutti di mare vivi, pesci con la pelle ancora coperta da muco trasparente, varie brassicacee orientali, alghe, piccoli frutti e spezie fresche ed essiccate, sono state predisposte, a pochi metri dalla spiaggia, una moltitudine di tettoie di legno intrecciato, dotate ognuna di una griglia, ciocchi di sandalo, tavoli e panche.
Ogni famiglia o gruppo di amici, con ordine, si installa in una piazzola e, acquistate le materie prime fresche da agricoltori e pescatori, inizia a grigliare, cuocere, condire, accompagnando i piatti con il riso al vapore portato da casa e il vino di palma locale ed evitando gli stereo nel rispetto di tutti.
Trasporto solo collettivo, cibo sano e fresco inintermediato, convivialità. Un esempio semplice da copiare immediatamente
Da La Stampa del