Pascoli, malinconico, qualche ora dopo il tramonto, sospirava al profumo di gelsomino trasportato dal vento. Sotto a un cielo muto d’uccelli, pensava agli affetti e respirava nell’aria l’aroma delle fragole rosse mature. Sarà che in Romagna gli arbusti hanno un bouquet differente ma, quando in Sicilia ho avuto la fortuna di attendere la luna, abbandonato su una sdraio, sotto a una pergola di gelsomini, l’aroma di fragola non l’ho trovato davvero. Piuttosto questi fiori hanno il profumo soave della pelle di una bella donna appena uscita dal bagno. Ma forse il grande poeta aveva più palato che naso e, questa volta, si è confuso, pregustando il sapore rosso che ben si sposa col gelsomino: quello della polpa dell’anguria, o mellone, come lo chiamano in Trinacria.
Se l’anguria oggi ha sempre più spesso il sapore deludente della zucca che quello inebriante del miele, quando ne scopriamo una matura, zuccherina e succosa, la mente vola verso una terrazza in riva al mare.
Nessun altro, se non l’aristocrazia Siciliana, contaminata dal sapere antico della pasticceria araba, poteva trasformare una cucurbitacea popolare in un gioco di raffinata passione gastronomica, privando il cocomero dei volgari semi. La polpa, setacciata, addensata lentamente sul fuoco con zucchero e amido di frumento, bagnata con l’acqua di fiori di gelsomino, si addensa al fresco, fino ad assumere una consistenza gelatinosa, tremula, elastica, notturna: il gelo di mellone, da gustare solo dopo il tramonto. Le fragole teniamole per la merenda pomeridiana.
Da La Stampa del