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MILANO DA BERE, NON (PIÙ) PER TUTTI

Milano era la città dell’inclusione, delle osterie in cui si osava il “tu” e che miscelavano le classi sociali. Osservata oggi, con gli occhi del visitatore occasionale, la città, gastronomicamente, non so se possa ancora dirsi contemporanea o d’avanguardia ma sicuramente non si mostra inclusiva.

Durante i giorni di lavoro le strade del centro sono preda delle auto parcheggiate, così copiose da occupare ormai più della metà delle sedi dei marciapiedi, ridotti a viottoli. Ma anche le rotonde sono decorate di autoveicoli, e così gli incroci e le piazze. Ci si aspetterebbero fiumi di persone nelle strade ma gli esseri umani, in alcune zone, alla sera, latitano sia sul selciato che nei locali. Le aree centrali, in particolare, sono orfane di giovani lavoratori. Pandemia e lavoro a domicilio a parte, trenta metri quadrati in affitto hanno raggiunto l’iperbolica cifra di 900 Euro al mese, cifra incompatibile con un primo stipendio e, a volte, anche con una posizione consolidata.

In due giorni in città, ho acquistato un piccolo ramo fiorito per 35 Euro, un chilo di zucchine per 12 Euro, una bottiglia di vino, in un locale giovane, di successo, a quasi il doppio di quanto la paghi nel resto d’Italia, e ho pagato una colazione salata per due, in un locale non centrale ma alla moda, oltre 60 Euro. I redditi non si sono allineati a questa infondata ipertrofia dei prezzi e i giovani probabilmente stanno arretrando verso la periferia. Di certo si stanno allontanando da uno degli indicatori sociali del secolo: il cibo di qualità.

Verdure di contadini rispettosi della terra e del sapore, pane a lievitazione spontanea, vini naturali, pesci freschi di cattura sono sempre più appannaggio di una fascia ristretta della popolazione. Milano è diventata una città esclusiva.

Da La Stampa del