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Mostella

Non so se Plauto avesse appena terminato una zuppa di pesce quando intitolava una delle sue commedie: Mostellaria, la commedia del fantasma. Va da sé che monstellum è il diminutivo di “mostro” e c’è un pesce della famiglia dei merluzzi che proprio bello non è. E’ altrettanto vero che ama vivere all’ombra e, come un fantasma, salta fuori dalla tana solo di notte. L’etimo è incerto. Di sicuro c’è che non ha mai assaggiato il mare chi non ha mai mangiato la mostella.

La carne è prelibata ma molto deperibile, per questo va consumata freschissima, a poche ore dalla pesca. Perciò è sempre finita nella zuppa dei pescatori, che di pesce se ne intendono o quanto meno si astengono dal vendere un prodotto che dopo un solo giorno già non sembra più fresco. Come il nasello, dà il meglio di sé cruda. A temperatura ambiente. Con un condimento quasi invisibile.

A me piace cucinarla nel suo stesso brodo, fatto con un pezzetto di sedano, un paio di pomodorini pelati, due grani di pepe e una bratta di cipolla. Fatto concentrare e poi filtrato, una volta a bollore, il brodo accoglierà il trancio di mostella che in due minuti sarà cotto al punto giusto. Al palato la carne sarà soda, con vago retrogusto di noce e il finale delicato e marino dell’onda sull’arenile. La accompagno con delle taccole dell’orto saltate in poco aglio, olio e aceto di vino invecchiato, per sognare di nuotare in cielo.

Sono certo che Plauto l’avesse assaggiata proprio così e, anche se qualche latinista potrebbe smentirmi, sarete d’accordo con me, dopo averla provata.

Da La Stampa del