L’unico ristoro adeguato ai ristoratori appassionati è poter fare il proprio lavoro. Alcuni, a dire delle decine di cuochi e proprietari di ristorante che mi trovo a frequentare, non saprebbero fare altro mestiere ma i più, semplicemente, non riescono a provare interesse in null’altro che non sia l’adrenalina di alzare la serranda, dar fuoco ai fornelli e prepararsi ad accogliere gli avventori, un giorno dopo l’altro.
Non esiste infatti compensazione economica che possa ripagare una vita trascorsa in piedi, trecento giorni all’anno, dall’alba a tarda notte, spizzicando due pasti a orari improbabili, appoggiati a una balaustra, festeggiando ogni ricorrenza nel locale e conducendo ogni conversazione dall’alto in basso, mentre i propri amici e clienti siedono al tavolo satolli.
C’è nel ristoratore qualcosa che trascende il desiderio di accudimento e va verso la nevrosi ma che merita rispetto da parte di tutti i clienti che, come me, hanno celebrato al ristorante alcuni dei giorni più importanti della propria vita.
Per i proprietari di una piadineria in cui lavorino tre cingalesi a tempo determinato, il sussidio economico previsto per decreto sarà sufficiente, ma per gli osti, quelli veri, per le cuoche di trattoria, per i ristoratori innamorati del proprio mestiere, che poi si confonde con la vita o che, anzi, gliel’ha portata via senza che abbiano neppure potuto fermarsi a rifletterci, l’unico ristoro che mitigherà depressione e affanno sarà quello di poter stendere di nuovo le tovaglie sul tavolo e accogliere i prossimi clienti.
Da La Stampa del