Erano anni di malora, quelli di Fenoglio e di Pavese. All’osteria si andava per bere, perché non era così vero che tutti in casa avessero il vino.
In cascina si consumava un torchiato allungato con l’acqua, che faceva pochi gradi e dava energia.
E il compito dell’oste consisteva proprio nel servire un onesto vino sfuso e nell’accompagnarlo con qualcosa di sostanzioso e non troppo caro.
All’inizio degli anni Sessanta, con l’arrivo del benessere, gli operai e i viaggiatori si misero a frequentare le trattorie all’ora di pranzo e poi la massa iniziò a concedersi l’osteria alla domenica a pranzo. E il menu che veniva servito era proprio quello della festa, anzi di un’enorme festa, archetipo della sconfitta della fame: antipasti, grandi piatti di primi, due carni, contorni e un paio di assaggi di dolci.
Negli anni Settanta iniziò a diffondersi il vino in bottiglia e i menu divennero esagerati.
Negli ultimi vent’anni il boom economico ha stravolto le Langhe, pettinato le colline, cancellato orti e boschi a favore della monocoltura. E una monocultura ha investito le osterie: si serve ovunque più o meno lo stesso menu, basato su cinque sole ricette, accanto a capesante, gamberi, piatti all’aceto balsamico, carni cotte a bassa temperatura e altre globalizzate amenità, nell’assenza totale delle tradizionali minestre, frittate e verdure fresche dell’orto.
La colpa è degli osti in via d’estinzione.
Senza oste non c’è osteria.
Per fortuna qualcuno ancora esiste ma a stento resiste: ha mantenuto prezzi abbordabili ed è allergico ai piatti quadrati ma rialzerà la serranda dopo l’ennesima chiusura?
Da La Stampa del