Servono coraggio e fatica per conoscere davvero le gioie del sapore e dell’amore. Chi abbia frequentato soltanto un amore violento, infantile, abusivo, inconsistente, è come chi abbia praticato esclusivamente la maionese del vasetto, le fragole del supermercato, il vino della grande distribuzione, il polpo atlantico surgelato.
Gli uni chiameranno “amore” ciò che non ha nulla a che vedere con esso e gli altri “sapore” ciò che da sempre conoscono come tale ma che è invece un impostore dal punto di vista organolettico.
Difenderanno ciecamente le loro credenze e non saranno in grado di ammettere l’incontro con la verità: questa maionese sa troppo di uovo, questo polpo è duro, questo amore non mi prende alla pancia, questa unione è troppo impegnativa. “Ti amo” e “buono” diventano così due scatole svuotate di ogni significato, utilizzate a sproposito per giustificare la propria pigrizia nel percorrere una strada nuova confrontandosi con chi abbia maggiori conoscenze ed esperienze.
E infatti il “food”, per descrivere la riluttanza per l’incerto, prende a prestito dalla psicanalisi del cuore il termine “confort” per indicare un piatto o un sapore dove non vi sia alcuno spazio per il desiderio ma soltanto il rifugiarsi in un porto sicuro, dove sono preclusi soddisfazione e sorpresa.
Solo superando l’angoscia della novità si potranno riassegnare in maniera corretta queste etichette semantiche, a patto che ci si interroghi con un po’ di curiosità sulla reale natura del cibo con cui si sono finora nutriti il proprio stomaco e il proprio cuore.
Da La Stampa del