Siamo ripiombati nell’incubo del delivery, da cui sto tentando di svegliarmi rileggendo alcune obiezioni inviatemi da voi lettori.
Vi lamentate che il costo dei piatti e dei vini da asporto, a causa di una politica dei prezzi alquanto ingenua, sia spesso il medesimo del menu servito al tavolo. Mentre in un ristorante ci si va soprattutto per l’esperienza, per il servizio, per le stoviglie di pregio, per ricevere piatti caldi e ben presentati, per non dover sporcare le padelle né lavare i piatti.
I clienti sarebbero più disponibili a accontentarsi dei sapori consegnati a casa, un po’ sballottati, senza fronzoli e fuori temperatura, se ci fosse un buon risparmio economico. Ma d’altra parte i ristoratori, me lo scrivono loro, versando ai servizi di consegna fino al 35% dell’ordine, debbono rivalersi sulla clientela. E l’avidità di Glovo e colleghi si estende anche ai fattorini, sfruttati a meno di 8 euro l’ora e privi di tutele: un motivo in più per astenersi dal delivery e per non essere complici di questa stortura del mondo globale.
Pare inoltre, ed è comprensibile ma non entusiasmante, che un terzo dei rider assaggi il cibo che consegna.
Sarebbe più coerente premiare quei ristoranti che si sono organizzati per consegnare in proprio pietanze alla giusta temperatura, scontate di almeno un quinto e che hanno scelto di preparare per l’asporto solo piatti dedicati, realizzati con materie prime fresche di giornata e ricette conviviali, che ben sopportano il riscaldamento. Non si tratta di una provocazione.
A Parigi molti ristoranti eccellenti fanno già esattamente così.
Da La Stampa del