Al livello più basso dell’evoluzione gastronomica si collocano gli individui che reclamano il sale prima ancora che il piatto sia arrivato in tavola.
Il cloruro di sodio, per via di meccanismi non completamente chiariti, amplifica la sensazione di qualsiasi gusto, dolce compreso, smorzando la percezione dell’amaro. Viene definito “esaltatore di sapidità” ma, in realtà, se questa moltiplicazione vale per i gusti fondamentali, per quanto riguarda il sapore, le cose stanno in maniera differente. Il sale in eccesso, infatti, restringe la gamma di percezione aromatica, frutto dell’interazione tra naso e palato.
Fate una prova aggiungendo una progressiva quantità di sale a un paio di fette di un frutto di campo maturo, di un pomodoro di un contadino, di un pesce di cattura o di un taglio di carne cruda. Vi accorgerete che, con l’aumento del condimento, si ottunderanno progressivamente la varietà e l’ampiezza dell’aroma, malgrado ne aumenterà l’intensità.
Vi è un livello di salatura, iniziale, piuttosto condiviso da tutti i degustatori, che viene considerato piacevole e idoneo, mentre, quando la percentuale di sale supera una soglia, il cibo perde il suo sapore originario che, ricordo, può essere percepito al massimo della ricchezza non salando per nulla.
Chi affoga il cibo in una valanga di sale, perciò, odia semplicemente il sapore, come fa chiunque compia la stessa operazione sia con il pepe, per la maggioranza dotato di notevole pungenza ma di scarsissimo valore aromatico, sia con il peperoncino che, soprattutto se essiccato e completo di semi, non è altro che un anestetico per le papille. Il sapore vero, come la vita, fa paura, ma avere il coraggio di rinunciare alla saliera può riservare qualche sorpresa pure ai palati più abusati e insicuri.
Da La Stampa del