I miei preferiti in questi giorni sono i ristoranti del cavolo.
Se la triade sostenibilità, salute e sapore rappresenta il futuro e il presente della gastronomia moderna e se i cuochi tengono davvero all’incolumità fisica dei propri avventori prima ancora che alla loro linea, dopo un’infilata impressionante di pasti delle feste a base di grassi, di alcool e di dolci, scollinata la colazione dell’Epifania, è quasi criminale che nei menu non compaia almeno un piatto di verdura fresca.
Se manca dall’elenco delle portate un qualsiasi vegetale che non sia imbustato, se la cicoria di campo di un contadino allergico a pesticidi e fertilizzanti è una chimera, se il radicchio di qualità è assente perché costa al chilogrammo più delle costolette d’agnello, in cucina almeno un cavolo, almeno quello, dev’esserci.
La verza abbonda in questa stagione, costa meno di un euro al pezzo e si conserva per oltre un mese, allo scadere del quale, mal che vada, si può improvvisare una zuppa per il personale.
In pochi secondi si eliminano le foglie più esterne, l’interno, se privo di parassiti, non necessita di lavaggio e affettare e condire un paio di porzioni richiede meno di un minuto.
Se le dispense traboccano di gamberi rossi e di guance di vitello cotte a bassa temperatura ma non è disponibile
nemmeno un cavolo crudo, come latitano a volte i pomodori d’estate, si rischia di dover derubricare il locale del cuore a ennesima stazione di assemblaggio, che però, con un modesto investimento dal verduriere, potrà continuare a fregiarsi legittimamente del titolo di ristorante.
Da La Stampa del