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ROMA E VARSAVIA STESSI SAPORI

Per mangiare male sono andato in Polonia. Non mi riferisco ai tradizionali self-service, buffet o latterie che dir si voglia, dove si servono, da metà mattina a metà pomeriggio, piatti abbondanti, nutrienti e prodighi di sapore, cucinati con ingredienti freschi del mercato: lingua bollita con salsa al rafano, polpette, zuppa di barbabietola, insalate di cavolo e cetrioli, crocchette di patate.
Ma intendo tutti i locali alla moda dove, in maniera del tutto identica alle altre capitali d’Europa che ho visitato di recente, finiscono nel piatto gamberi crudi sugli spaghetti, tartufo nero grattugiato un po’ ovunque, guance di vitello cotte a bassa temperatura, animelle fritte, bottarga di ogni pesce a lamelle su ogni cibo, baccalà a carpaccio, fegato d’oca in padella, germogli di varia foggia distribuiti a decorare qualsiasi preparazione, yuzu onnipresente, verdure fresche assenti.

È una cucina dell’imitazione, dell’omologazione e dell’assemblaggio quella che ha appiattito sia l’alta ristorazione che i bistrot in tutto il Vecchio Continente, trasformando il sedersi a tavola in uno status symbol, identico a sé stesso, sorretto dal conforto di trovare una cucina senza invenzioni, senza identità, senza sorprese e, nella maggior parte dei casi, senza sapore. Per fortuna non mancano le eccezioni e alcuni locali sanno selezionare il meglio tra quelle stesse materie prime, cucinandole in maniera originale e di gusto, ma troppo spesso si ha ormai l’impressione di assistere a un film già visto troppe volte, e pure piuttosto noioso. Meglio allora cambiare canale.

Da La Stampa del