Deve esserci un po’ sfuggita di mano l’educazione al riciclo, se i miei nipotini hanno tentato con ogni forza di convincermi a cucinare un minestrone sversando direttamente in pentola il bidone dell’umido, che peraltro non accoglieva davvero altro che l’inutilizzabile.
Infatti a casa impieghiamo comunemente la mondatura delle verdure, degli animali da cortile e del pesce, per realizzare brodi, concentrati, gelatine e dadi artigianali, pratica che d’altro canto dubito possa essere quotidianamente prevista dalla totalità dei ristoratori che si fanno vanto della sbandierata lotta allo spreco.
Ma, visto che la coerenza dell’esempio resta il più onesto e efficace alleato della trasmissione della conoscenza, abbiamo recuperato dall’immondizia le bucce di patata e, secondo una ricetta tramandatami da mia nonna, figlia di una dignitosa povertà, le abbiamo sciacquate accuratamente sotto un getto d’acqua fredda e poi lasciate in ammollo in acqua calda, per far loro perdere l’amido in eccesso, nemico giurato della croccantezza.
Scolate e tamponate bene con un canovaccio pulito, per evitare gli schizzi, le abbiamo fritte nella tradizionale padella nera di ferro, con burro di montagna e qualche fogliolina di salvia.
Adagiatele ad asciugare sulla carta assorbente, senza mai coprirle, pena la perdita della rigidità, abbiamo sancito con sale, pepe e buccia di limone il patto intergenerazionale tra tradizionale parsimonia contadina e moderna attenzione alla sostenibilità.
E, visto il successo, abbiamo proseguito con la frittata di spazzatura: preparatevi a sdoganarla!
Da La Stampa del