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TARTUFO, UNA RICETTA SOSTENIBILE

La fortuna commerciale del tartufo l’ha infilato in un cul-de-sac dal punto di vista gastronomico.
È ormai diventato un oggetto di lusso, concetto che oggi di rado fa rima con squisita raffinatezza e, molto più spesso, con volgare esibizione.
Inoltre, il successo sui nuovi mezzi di interazione sociale l’ha trasformato in uno stagionale indicatore di stato, tanto più elevato quanto più abbondate sia la “grattata” ritratta in fotografia.
Infine, la praticità, al ristorante, della vendita a peso, ha spinto i cuochi non a utilizzarlo nelle preparazioni ma a sovrapporlo alle stesse, con un eccesso privo di logica aromatica.

Ma, proprio ora che sì è consolidato il primato della vista sul gusto, siamo entrati in un’era in cui diametri e quantità del fungo ipogeo, complice il cambiamento climatico e la scomparsa dei boschi, dovuta alla monocoltura, saranno sempre più scarsi.

Si potrebbe tornare quindi a dar valore al profumo, considerando il tuber non un cibo ma un ingrediente, quale era nei mille anni precedenti. I cuochi e le cuoche del mondo potrebbero selezionarlo per aroma, cucinandolo in maniera più personalizzata in nuovi piatti, in una modalità più inclusiva, in minime quantità, per più porzioni, a un prezzo beninteso adeguato alla preziosità della loro arte e dell’ingrediente, capace di esaltare non solo stesso ma il cibo che accompagna.
Non a caso Enrico Crippa, faro degli chef di Langa, non nasconde i tajarin sotto a una crosta di tartufo bianco ma li preferisce “con un’emulsione di acqua, burro, acciughe e tartufo”.

Riconoscere al tartufo il potere di evocare un’emozione al sapore e non alla vista potrebbe essere una ricetta sostenibile per una risorsa scarsa ma ancora in grado di far sognare. E si sogna, appunto, a occhi chiusi.

Da La Stampa del