Il mito assoluto della cucina francese vale per i ristoranti di altissimo livello.
In molti altri locali, i prodotti industriali la fanno da padroni, i piatti sono sovente banali e il servizio mediocre. Nelle case private prevalgono cibo d’asporto etnico e preparazioni del supermercato.
Non va molto meglio in Italia, dove solo un miope sciovinismo non riconosce che la globalizzazione non è più arginata dall’identità regionale. Dai carrelli della spesa si scopre che gli italiani riscaldano ma non cucinano, i piatti pronti crescono a doppia cifra, quanto la consegna di cibo dozzinale a domicilio, e la stragrande maggioranza dei locali serve pasta fresca acquistata già pronta o congelata. I vertici gastronomici non mancano ma sono sempre più appannaggio di pochi fortunati e concentrati nelle città, mentre le campagne più anonime si stanno spopolano di uomini e di sapori.
Eppure una differenza tra i due stati c’è. Un amico sostiene sia evidente: i quarantenni italiani al parco portano il cane mentre i francesi spingono un passeggino: la speranza nella République è ancora solida e il Governo, malgrado la situazione economica non molto più rosea della nostra, la alimenta al passo con i tempi.
In Provenza ho visitato una trattoria costruita e arredata dal Comune con molto buon gusto. È stata data in concessione a chi portasse una cucina a prezzi calmierati, basata esclusivamente su prodotti sostenibili e vini contadini. E sta diventando un successo, anche demografico. La giovane coppia ha generato una bambina, i tavoli sono pieni, i produttori locali entusiasti, gli abitanti del villaggio hanno un luogo di aggregazione, numerosi turisti compiono una deviazione per visitare quel paesino pregevole ma sconosciuto e alcuni vi si stanno trasferendo. È così difficile farlo anche in Italia?
Da La Stampa del