Con i millesimi non si computano solamente le spese condominiali, ma anche, alla francese, le annate del vino che, a differenza del genere umano, premiano l’invecchiamento, soprattutto quando siano presenti nel vitigno delle molecole astringenti, i tannini, che necessitano di lunghi riposi in botte prima e in bottiglia dopo, per ammorbidirsi, smussare gli spigoli e aprirsi alla piacevolezza.
Barolo e Chianti, le due zone vinicole più apprezzate d’Italia, coltivano uve ricche di questi tannini e i vini risultano perciò pronti da bere dopo almeno dieci anni e al massimo della forma anche dopo venti.
Ben lo sapevano aristocratici e alto borghesi che nell’Ottocento, -basta una ricognizione negli archivi di stato francesi e sabaudi- stappavano i vini di Piemonte e Toscana dopo almeno un decennio di bottiglia.
Ma anche i contadini piemontesi -fa parte della storia della mia famiglia- al compimento della maggiore età dei figli aprivano una bottiglia conservata per diciotto anni.
E pure gli accademici britannici dei migliori college di Oxford, dotati di immense cantine, amavano e amano ancora -parlo per esperienza diretta- vini di Langa, Chianti e Borgogna vecchi di venti o trent’anni.
Ma oggi nei locali di Piemonte e Toscana si trovano per lo più vini locali di soli tre o quattro anni. È il mercato. La domanda è enorme e i produttori svuotano le riserve, i ristoratori non riempiono le cantine e i prezzi vanno comunque alle stelle.
Questi infanticidi enologici, ben sostenuti dagli scatti sui social, corrispondono a masticare cachi acerbi al prezzo dei tartufi.
Da La Stampa del