Fu Michelle Obama, una dozzina d’anni fa, a promuovere il progetto “Let’s Move”, cibo più sano nelle scuole: cereali semintegrali e molta verdura. L’intenzione era di dare ai meno fortunati, dal punto di vista sociale, culturale ed economico, l’opportunità di sperimentare cibo vero, fresco, sano e buono.
L’educazione al sapore infatti è l’unica strategia con cui si riescono davvero a modificare le abitudini alimentare. E lo sanno bene molte multinazionali, che riempiono i loro prodotti di sale, zucchero, addensanti, aromi artificiali e grassi per abituare i giovani consumatori a gusti neutri, luridi, sapidi, scivolosi o eccessivamente croccanti, fregando per sempre le loro giovani papille. E furono queste aziende ad armare il dito delle mamme più svantaggiate, che iniziarono a pretendere per i loro figli “cibo più appetitoso”, “cibo più americano”, “piatti più abbondanti”, “pietanze più gustose”, in due parole il ritorno al cibo spazzatura che la riforma voleva superare.
L’amministrazione Trump cancellò il programma.
Il nostro populismo alimentare non è da meno e moltissimi sono i messaggi di protesta che ho ricevuto in seguito al DoctorChef della scorsa settimana, in cui mettevo in guardia contro l’assenza di sapore e di vegetali e l’abbondanza di sale e di calorie dei fast food.
A chi mi ha manifestato l’orgoglio di essere obeso, la passione per il cibo altamente trasformato, la scusa della scarsità di tempo e di denaro, faccio presente che ad essere malati, malnutriti, ignari del sapore di alimenti veri, come gli accessibili pane a lievitazione naturale, prugne dell’orto e pomodori di campo maturi, non vi è alcun vantaggio, se non per chi il cibo finto lo produce. E forse vale la pena di ragionarci prima di protestare.
Da La Stampa del