Alle tre del pomeriggio e trentacinque gradi nell’immenso parcheggio del centro commerciale l’asfalto fuma. Le poche macchine sono concentrate attorno all’insegna del fast food con l’enorme “m” gialla.
Termino di fare benzina e decido di entrare.
Gli avventori di quello che negli Stati Uniti chiamerebbero ristorante appartengono a tre categorie: ragazze vistosamente obese con unghie lunghissime che tamburellano gli schermi dei telefoni mentre le labbra cingono le cannucce delle bibite; bambini con maglie di poliestere di varie squadre di calcio, accompagnati da un genitore che spilucca patatine fritte mentre i pargoli divorano hamburger, gelati e Coca-Cola; autotrasportatori entrati per ricaricare i telefoni e darsi una rinfrescata in bagno, che si concedono una pausa al fresco e ingurgitano un paio di panini. Il silenzio è rotto solamente dalle parole dei giovani addetti, estremamente professionali e gentili.
Ordino dalla lavagna elettronica provando a comporre un pasto sano: duecento grammi di carne e un’insalata mista. I vegetali sono insapori, un po’ vizzi e tristi.
I dodici bocconcini di petto di pollo italiano frullato e ricomposto non son affatto appetitosi, semplicemente luridamente golosi, grassi, croccanti e pieni di zucchero e di sale. La scatola recita: contenuto in calorie, un terzo del fabbisogno giornaliero di una persona sedentaria; oltre due cucchiai di grassi; 1 piccolo cucchiaino di zucchero; mezzo cucchiaino di sale. Faccio fatica a mangiarne più di quattro pezzi.
Ma se milioni di individui nel mondo ogni giorno sono entusiasti di malnutrirsi di questa roba insulsa e senza sapore, il movente è da ricercarsi in una miscela di solitudine, apatia e noia, purtroppo ogni giorno più diffuse.
Da La Stampa del