La cucina regionale non esiste. O almeno non nelle forme in cui la promuoviamo.
Dopo Eric J. Hobsbawm, è arrivato anche Alberto Grandi a certificare quanto da otto anni sostengo da queste colonne.
Sul finire degli anni Sessanta, la crescita economica degli anni del “boom” iniziò a rallentare e nell’Italia, ormai non più contadina, i nuovi cittadini si sperticarono a costruire un senso di appartenenza altisonante, ammantando di ascendenze aristocratiche la vergogna gastronomica del passato, che aveva previsto, per la maggior parte degli antenati, frugalità, miseria, fame e una dieta a base di brodi, pane nero, polenta, cipolle, patate e avanzi di formaggio.
Prima del 1950 il riso in Sicilia non era quasi commercializzato e i mitici arancini non potevano essere così diffusi.
La carbonara è un’invenzione dei soldati americani che misero in pentola le uova liofilizzate e il bacon delle loro razioni militari.
Non poteva essere contadino e langarolo il vitello tonnato, inventato dall’Artusi, che, di un prezioso vitello, utilizza due minuscoli pezzi di muscolo insieme a tonno e capperi.
La consuetudine prevedeva in realtà che le verdure fossero diffuse in campagna ma preziose in città, dove era difficile approvvigionarle, e che dentro le mura si consumasse molta carne bovina, assente nelle campagne.
Oggi i ricchi cittadini scelgono menu con vegetali prodotti nel rispetto della terra e del sapore; abbiamo quindi l’occasione di ripescare la vera tradizione italiana, senza più zuffe tra comuni a suon di basilico o di cipolla.